Vi Racconto Una Foto - News - Gianluca Laurentini - Fotografia di paesaggio e di viaggio

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Vi racconto una foto #11 / Il lago che non c’è

Gianluca Laurentini - Fotografia di paesaggio e di viaggio
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Tags: Vi Racconto Una FotoFriuli Venezia GiuliaDiga del VajontMontagnaVajont

Questa è la foto di un lago che non c'è e che non ci sarebbe mai dovuto essere, ma che per un breve lasso di tempo c’è stato. Quel piccolo torrente che si vede scorrere sul fondo valle ha infatti un nome che fa tremare le gambe a chi conosce la storia di questi luoghi e delle grandi tragedie italiane, si chiama infatti Vajont.

Vedendolo da qui sembrerebbe un placido torrente di montagna, ma per la follia dell’uomo e la ricerca di uno smisurato guadagno negli anni ‘50 qualcuno ha pensato di realizzare qui una diga come non ce n’erano altre al mondo, la più alta del mondo. Un prodigio dell’ingegneria, tanto che è ancora lì, maestosa come è stata pensata, ma posizionata nel luogo sbagliato.

Il lago doveva arrivare a lambire quel piccolo paese che si vede sulla destra e che si chiama Erto, per cui immaginate quanta acqua dovesse contenere quel lago guardando questa foto.

I segnali che qualcosa non stesse andando nel verso giusto c’erano, ma li potrà spiegare meglio di me chi è esperto della vicenda. Però so che, appassionandomi alle vicende di questa tragedia, da fotografo ho cercato questo punto di vista preparandomi prima ancora di partire. Volevo una foto che mostrasse quello che non c’è ancora di più di quello che è rimasto, così ho deciso di andare nel punto diametralmente opposto della valle rispetto alla diga e di scattare questa foto. E ci sono andato nel tardo pomeriggio di un giorno nuvoloso, la fortuna mi ha assistito nel mio compito regalandomi un timido sole che si fa strada tra le nubi e che restituisce l’idea che alla fine la luce torna anche lì dove la speranza di un futuro è stata negata a tanta gente. Infatti, come si può vedere in questa fotografia, in fondo alla valle c’è un grande cumulo di terra lì dove non dovrebbe esserci nulla a fermare quel torrente, quella collina è la grande frana che si è originata il 9 ottobre del 1963 che provocò un’onda stimata di 250 metri di altezza e un’onda d’urto pazzesca che alcuni stimano come più potente di quella di una bomba atomica. Nel disastro rimasero uccise quasi 2.000 persone, compresi circa 500 tra adolescenti e bambini, ma ci furono anche alcuni bambini mai nati che erano ancora nel grembo delle loro madri e che non videro mai la luce.

Chi mi segue rimarrà probabilmente un po’ spiazzato dalla postproduzione più spinta del solito, ma in un posto del genere, per raccontare una storia del genere, c’è bisogno di andare oltre quello che per me è il normale limite nello sviluppo di una fotografia.



Vi racconto una foto #10 / Space Invaders a Roma?

Gianluca Laurentini - Fotografia di paesaggio e di viaggio
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Tags: Vi Racconto Una FotoRomaPantheonOcolusSpace Invaders

Il Pantheon di Roma è probabilmente il  monumento che preferisco tra tutti quelli che ho avuto l’opportunità di vedere nella mia vita. Le sue forme, le proporzioni ricercate dagli antichi romani nel costruirlo, l’eleganza dei suoi interni che si rivela una volta varcato l’immenso portone di bronzo, il suo sfidare il tempo rimanendo sempre incredibilmente affascinante e maestoso per chi lo osserva, tutto ciò contribuisce a renderlo unico. E non è un caso se viene ammirato e visitato da migliaia di turisti ogni giorno.

All'interno del Pantheon ho passato ore a guardare e a fotografare ogni dettaglio, ma quando ho scattato questa foto avevo deciso di passarci un paio d'ore per vedere come cambiava la luce al suo interno.

In quel momento il sole era basso sull'orizzonte e quindi il raggio di luce che entrava dall’ocolus era molto vicino all’apertura stessa e ho notato una cosa a cui non avevo mai fatto caso prima di allora, cioè che ci sono dei momenti della giornata in cui il raggio di luce somiglia agli alieni da colpire nel videogioco “Space Invaders”. Per riprenderlo al meglio ho capito immediatamente che sarebbe servito avere un forte contrasto e che quindi avrei dovuto far sparire i dettagli del soffitto del Pantheon rendendoli più scuri possibile e calcolare l'esposizione sull'unica porzione illuminata dal sole per metterne in risalto la buffa forma. L’unica altra zona della fotografia visibile sarebbe stata così proprio quella dell’ocolus, attraverso il quale sarebbe stato possibile riprendere l’azzurro del cielo, permettendomi di bilanciare la foto grazie a una diagonale che avrebbe reso la foto più dinamica. Fatte queste rapide valutazioni ho scattato.

L'effetto finale mi piace molto e ora ogni volta che mi capita di tornare all'interno del Pantheon non posso fare a meno di andare a cercare gli Space Invaders.



Vi racconto una foto #9 / Una scommessa vinta

Gianluca Laurentini - Fotografia di paesaggio e di viaggio
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Tags: Vi Racconto Una FotoMonte BiancoAlta RisoluzioneMontagnaMontagne di Luce
Ho scattato questa fotografia nel luglio del 2013 e ha una storia molto particolare che mi fa piacere raccontarvi. Quel giorno mi trovavo al rifugio Torino e stavo ammirando lo splendido spettacolo del Monte Bianco di fronte a me. Un grosso fronte nuvoloso stava per arrivare e quindi avevo poco tempo per scattare qualche fotografia. Nel momento in cui mi ero ritrovato ad ammirare questo splendido paesaggio il mio pensiero è subito andato alla mostra “Montagne di Luce” che stavo preparando in quel periodo e che sarebbe stata esposta nell’autunno di quell’anno. Sapevo di avere a disposizione un grande spazio proprio sul pannello finale per chiudere la mostra con una fotografia di grande formato e volevo che lasciasse a bocca aperta i visitatori, ma non avevo ancora individuato quale avrebbe potuto essere. All'epoca utilizzavo però una reflex Olympus E30 che aveva appena 12.3 megapixel di risoluzione, quindi sarebbe stato difficile pensare di stampare la foto ottenuta in grande formato mantenendo un livello di dettaglio alto.
L'unica soluzione possibile per ottenere ciò che mi serviva era quella di scattare una serie di fotografie per unirle poi in un secondo momento. Optai per scattare 42 fotografie, ben sapendo che sarebbe bastato un piccolo errore in fase di ripresa affinché l'unione di un numero così alto di fotografie non andasse a buon fine. In più avevo il timore che i computer dell'epoca non fossero in grado di gestire un numero così grande di foto. Inoltre, proprio per via del fronte nuvoloso che stava per arrivare, dovevo fare in fretta ben sapendo di avere una sola possibilità per ottenere quello che volevo.
Posizionai in fretta il cavalletto, montai il teleobiettivo e feci una rapida prova dei movimenti che avrei dovuto ripetere qualche secondo dopo scattando, quindi iniziai a scattare sperando che le nuvole mi lasciassero in pace per i circa due minuti che mi servivano per portare a termine le operazioni. Ero ben conscio che se avessi fallito non solo non avrei avuto la fotografia sperata, ma avrei sprecato tempo utile per fare fotografie più normali e meno impegnative.
Tutto andò per il meglio e una volta che ebbi finito di scattare iniziò una lunga attesa per conoscere il risultato perché solo al momento del mio ritorno a casa avrei potuto unire tutte le fotografie e non potete immaginare il sollievo che provai vedendo per la prima volta questa fotografia apparire sullo schermo del computer circa 10 giorni dopo averla scattata.
Alla fine della mostra “Montagne di Luce” chi si trovava di fronte a questo scatto rimaneva stupito dalla quantità di dettagli visibili nella foto, perché anche avvicinandosi ogni zona rimaneva perfettamente leggibile. Insomma avevo ottenuto l'effetto sperato e oggi questa fotografia di oltre un metro di lunghezza è appesa nel salotto di casa mia a ricordo di una giornata speciale.




Vi racconto una foto #8 / La “chiamata”

Gianluca Laurentini - Fotografia di paesaggio e di viaggio
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Tags: Vi Racconto Una FotoMonte PennaMarcheSantuario della VernaForeste Casentinesi

Una delle cose che mi rimane più difficile è quella di trovare un titolo alle fotografie che scatto. Trovo quella di scegliere il titolo giusto un'arte che semplicemente non mi appartiene, eppure il titolo che ho dato a questa foto mi è parso chiaro ancora prima di premere il pulsante di scatto. Il gioco di parole tra la chiamata che dovevano aver avuto le suore per decidere di prendere i voti e la più prosaica chiamata al cellulare mi è parso subito evidente.

Mi piace però spiegarvi un po' di più di questa foto, perché è stato un momento inaspettato che ho colto al volo quando si è palesato davanti ai miei occhi. Mi trovavo nello stupendo parco delle Foreste Casentinesi per fotografarle e quella mattina avevo deciso di andare al Santuario della Verna e di percorrere il sentiero ad anello nella foresta che porta fino alla cima del Monte Penna. Nulla di difficile, anzi era da considerare una di quelle passeggiatine per riprendermi dalle fatiche dei giorni precedenti. Per tutta la prima parte della passeggiata nel bosco non avevamo incontrato praticamente nessuno perché avevamo deciso di percorrere subito la parte di sentiero più lunga approfittando del fresco della mattina, ma quando mancavano solo poche decine di metri al punto di arrivo iniziai a sentire parlottare qualcuno. Svoltato l'angolo per arrivare alla terrazza panoramica mi si è presentata questa visione che ho immediatamente immortalato senza neanche guardare nel mirino. Avevo la macchina fotografica al collo e mi è bastato alzarla di quel tanto che bastava e premere il pulsante di scatto per portare a casa lo scatto così come lo vedete. D'altra parte vivo in “simbiosi” - mi si permetta il termine - con la fotocamera da anni e ormai conosco gli angoli sottesi dai miei obiettivi per cui spesso riesco a capire cosa sto inquadrando ancora prima di mirare.

Questa scena è durata solo pochi istanti perché dietro di me c'era il mio bambino che in quel momento aveva 2 anni e quindi quando le suore lo hanno visto hanno tolto il cellulare e si sono avvicinate per giocare con lui.

Non so per quale motivo quelle religiose si fossero radunate lassù per utilizzare il cellulare, il segnale arrivava anche intorno al santuario senza grossi problemi, inoltre in un luogo di meditazione come quello mi sarei aspettato che la priorità di quelle suore fossero altre, però quando me le sono ritrovate davanti all'improvviso ho trovato la scena molto buffa e sono contento di aver scattato questa fotografia.

Inoltre le suore erano molto simpatiche e disponibili ed è stato bello condividere con loro qualche momento in cui mio figlio ha insegnato loro a cantare la canzone della pizza tra lo stupore degli altri escursionisti che nel frattempo hanno raggiunto la cima.



Vi racconto una foto #7 / La diga ricostruita?

Gianluca Laurentini - Fotografia di paesaggio e di viaggio
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Tags: Vi Racconto Una FotoFriuli Venezia GiuliaDiga del VajontMontagnaVajont

La prima volta che ho visto la diga del Vajont e la frana del Monte Toc è stato qualcosa di impressionante. Ero arrivato preparato, conoscevo gli accadimenti non solo per aver visto il film o lo spettacolo di Paolini, ma anche e soprattutto per essermi ben documentato tramite internet. Nonostante questo quando visitai la zona rimasi letteralmente senza parole. Mi sentivo piccolo piccolo non solo nei confronti delle persone decedute nella tragedia, quasi 2.000, ma anche e soprattutto riguardo ai volumi in gioco. La frana è qualcosa di colossale, senza averla vista dal vivo e averci camminato sopra è praticamente impossibile capire di cosa si stia parlando. Il Vajont è uno di quei luoghi in cui devi esserci andato per capire, altrimenti non avrai mai più di un'idea di cosa sia realmente successo in quel luogo.

Probabilmente sarebbe stato meglio se fossero rimasti senza parole anche due motociclisti che parcheggiarono i loro bolidi a fianco alla mia macchina mentre preparavo l'attrezzatura fotografica prima di iniziare a scattare qualche foto, tra le quali quella che vedete.

Mentre avevo lo zaino aperto sul sedile posteriore della mia auto e stavo pulendo le lenti con la microfibra arrivarono loro. Spensero le moto e scesero mettendo i cavalletti, poi si sgranchirono un pochino le articolazioni delle gambe dopo il viaggio, quindi osservando la diga uno dei due esclamò: "non pensavo l'avessero ricostruita". L'altro, che ne doveva sapere ancora meno dell'amico, ma che doveva avere una buona dose di fantasia mista a complottismo, rispose: "si vede che a qualcuno conveniva rimetterla in piedi". "E già", rispose il primo convinto dall'esaustiva spiegazione dell'amico.

Rimasi colpito dal fatto che persone che partivano da casa facendo non so quanti chilometri - l'accento sembrava Veneto ma non saprei dire da dove venissero realmente -, non si erano minimamente degnate di conoscere quello che stavano andando a vedere.

Dopo aver assistito a quella improbabile scena mi chiesi se queste due persone al loro ritorno sarebbero andate la sera al bar del paese o avrebbero parlato alle proprie mogli della diga del Vajont ricostruita per lucrarci e, soprattutto, se le persone con le quali avrebbero parlato sarebbero state in grado di correggerle. Probabilmente no, perché quella del Vajont è una tragedia di cui non si parla nelle scuole, che non è radicata nella memoria collettiva. Però per conoscerla, per immaginarla e per capirla basta andare lì con la curiosità di chi vuole imparare e allora tutto sarà incredibilmente e terribilmente chiaro.



Vi racconto una foto #6 / Una mattina inaspettata

Gianluca Laurentini - Fotografia di paesaggio e di viaggio
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Tags: Vi Racconto Una FotoRomaAlbaOra BluPiazza di Spagna

La sera prima di scattare questa foto avevo deciso che sarei andato all'alba, anzi ben prima dell’alba, a Piazza di Spagna per scattare qualche foto alla fontana della Barcaccia. Quando si ha a che fare con l'alba la premeditazione è condizione essenziale per ottenere buoni risultati. Bisogna avere le idee chiare sulla fotografia che si vuole ottenere, conoscere anche il posto in cui si potrà parcheggiare e quanto tempo si dovrà perdere per raggiungere il luogo dello scatto, l'attrezzatura andrà preparata la sera prima con cura scegliendo cosa portare e cosa no e occorrerà mettere la sveglia a un orario che poche persone non riterrebbero essere un crimine contro la persona. Insomma tutte le decisioni per scattare una foto del genere vengono prese con almeno una giornata di anticipo. Quando si tratta di foto da scattare nella mia città guardo bene anche il meteo, infatti un cielo poco nuvoloso può regalare belle soddisfazioni, ma spesso le previsioni si rivelano imprecise perché sono proprio le condizioni più difficili da prevedere quelle che fanno gola ai fotografi. Quando sono in viaggio e ho poche occasioni di trovarmi all’alba nello stesso posto per due giorni di seguito invece di solito mi limito ad alzarmi e a sperare che vada tutto per il meglio, consapevole che un’alba ogni 10 vale veramente la pena.
Quella mattina arrivai e tutto sembrava essere perfetto per scattare belle foto all’ora blu, a parte che per un particolare: la macchina dei vigili urbani parcheggiata non distante dalla fontana. Chi mi segue forse ricorda delle disavventure che ho raccontato riguardo le mie esperienza con il cavalletto in città per cui ero un po' preoccupato. Posizionai la macchina fotografica sul cavalletto e presi il telecomando notando con la coda dell'occhio che uno dei vigili urbani stava camminando verso di me. Decisi così di premere il pulsante di scatto senza nemmeno controllare i parametri per portare a casa almeno una fotografia nel caso in cui quel poliziotto stesse venendo a cacciarmi. Il vigile si avvicinò fugando ogni dubbio, ero inequivocabilmente io l'oggetto del suo interesse. Non mi piace generalizzare perché è ingiusto farlo, ma i vigili urbani di Roma in alcuni casi non si rivelano né simpatici né gentili nei modi e spesso sono troppo concentrati sul far valere il loro potere nei confronti di chi hanno davanti che a mio avviso questo spesso si traduce in un vero e proprio abuso di potere che porta a ordini inutili. Quindi ero pronto a riprendere tutto pensando a dove andare a fotografare l’ora blu. Invece quel vigile mi salutò e iniziò a guardare nello schermo della macchina fotografica. Si fermò incuriosito a chiacchierare e a farmi domande su quel che stavo facendo. Guardava la fontana, la scalinata e poi la macchina fotografica e faceva qualche domanda. Gli spiegai che stavo aspettando l'ora blu, che era ancora troppo scuro e che in circa 10 minuti sarebbe arrivato quel momento magico che dura pochi istanti. Mentre il collega vigilava sulla piazza vuota guardando di tanto in tanto il cellulare, lui rimase con me e quando gli dissi che quello era il momento perfetto guardò la scena e poi la fotografia appena scattata quando apparve sullo schermo. A quel punto ero soddisfatto e lo salutai prima di spostarmi per fotografare il sorgere del sole da un'altra posizione e lui mi disse: "grazie perché dopo tanti anni di servizio si rischia di abituarsi a certe scene, invece guardandole con te mi sono ricordato di quanto sono fortunato a lavorare in mezzo a queste meraviglie".
Quella mattina fu una sorpresa per entrambi e virtualmente ancora ringrazio quella persona che si comportò in modo così gentile e amichevole da riscattare un'intera categoria.



Vi racconto una foto #5 / Camosci? Neanche uno!

Gianluca Laurentini - Fotografia di paesaggio e di viaggio

Dicono che il Camoscio Appenninico sia il più bello al mondo. Non a caso il suo nome scientifico è Rupicapra ornata, un modo per indicare il suo manto particolarmente maestoso. Per apprezzarlo però bisogna andarlo a cercare in autunno inoltrato, quando il camoscio si prepara alla stagione invernale e il manto è al massimo del suo splendore. Per questo motivo sono andato più volte nel Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise in quel periodo per poterli incontrare e fotografare.
Esistono molti posti dove è possibile incontrarli, uno di questi è la Val di Rose. L’escursione non è complicata di per sé, ma si tratta di circa 800 metri di dislivello da percorrere con l’attrezzatura fotografica e bisogna obbligatoriamente portare con sé un teleobiettivo. Considerate che il mio pesa circa 1,6 kg, se a questo aggiungete il peso del corpo macchina, di un altro obiettivo, del pranzo e dell’acqua capirete facilmente che si tratta di una “passeggiata” abbastanza faticosa.

Il giorno in cui ho scattato questa foto sono partito la mattina presto da Roma con il mio amico Diego. Sapevamo che non sarebbe stata una giornata di sole pieno, ma non rischiavamo nemmeno di trovarci in una tempesta. Comunque eravamo partiti pronti ad affrontare qualunque situazione con ottimismo, a parte il traffico tentacolare di Sora che è una costante spina nel fianco quando ci si dirige verso il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise da quel versante.

Dopo il classico caffè pre-escursione abbiamo iniziato a salire. Quando eravamo circa a un terzo del percorso abbiamo incontrato una famiglia di francesi in vacanza che stava scendendo verso Valle proprio dalla Val di Rose. Ci siamo fermati per un saluto e un breve scambio di informazioni e ci hanno detto che la passeggiata era fantastica, ma faticosa e che avevano visto parecchi cavalli allo stato brado. Provai a chiedere se avessero avvistato i camosci ricordandomi non so come che in francese si chiamano “chamois” e la risposta fu: “Camosci? Neanche uno!”. A quel punto ricordo lo sguardo perplesso di Diego, al quale avevo promesso di vederne in quantità. Abbiamo salutato gli altri escursionisti e abbiamo continuato a salire fino ad arrivare in Val di Rose e dirigendoci verso il Rifugio Forca Resuni.
Con le luci basse date dalle nuvole in effetti sembrava non ci fossero camosci, ma conoscendo i luoghi in cui questi animali si radunano dalle escursioni precedenti è bastato salire abbastanza per vedere che ce n’erano non meno di una decina proprio vicino a noi.
Nonostante la leggera pioggerellina  che nel frattempo ci aveva raggiunti e la naturale diffidenza di questi animali sono riuscito piano piano ad avvicinarmi a un esemplare e a scattargli diverse fotografie. Sono particolarmente affezionato a questa sia per l’espressione del camoscio sia per il fatto che si riescono a vedere le gocce di pioggia in controluce a ricordo del clima che abbiamo trovato in quota.
Una giornata bellissima in cui ho potuto riportare a casa con me numerose fotografie e anche tante preziose emozioni che conserverò per sempre.



Titolo: Vi racconto una foto #4 / Una storia di gatti e alzatacce

Gianluca Laurentini - Fotografia di paesaggio e di viaggio
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Tags: Vi Racconto Una FotoForo RomanoCampidoglioAlbafujifilmGFX50SRomaLarge FormatGatto

Chi mi segue da tempo conosce questa foto perché l’ho scelta per la locandina della mostra: “Roma, dal tramonto all’alba”, pochi però conoscono come questa fotografia sia nata e per questo mi fa piacere raccontarvi oggi la sua genesi.
Nel periodo in cui ho scattato questa foto stavo provando una macchina fotografica fantastica: la Fujifilm GFX50S. Era la prima fotocamera mirrorless prodotta da Fujifilm con sensore medio formato, in seguito ribattezzato Large Format. Un sensore dalla gamma dinamica eccezionale. Lenta operativamente parlando e pesante da trasportare, difetti poi eliminati nei modelli successivi, ma quando si lavoravano i file RAW che era in grado di produrre sembrava di sognare.
In quei giorni mi ero fissato con l'idea di scattare una foto all'alba al Foro Romano visto dal Campidoglio con quella fotocamera. I problemi erano essenzialmente due: avevo i giorni contati e la fotocamera mi era stata data in prova in prossimità del solstizio d'estate. Un paesaggista ha per forza a che fare con il meteo e avere i giorni contati vuol dire sperare che tutto si allinei per il meglio per almeno un istante e l’estate è il periodo peggiore per sperare che questo avvenga, mentre essere vicini al solstizio d'estate voleva dire che se quell'istante fosse arrivato lo avrebbe fatto la mattina molto presto. Tanto per darvi un'idea dovete immaginare che per scattare questa foto mi sono alzato intorno alle 4:30 di mattina per vari giorni.
Il primo giorno in cui mi recai al Campidoglio trovai un cielo completamente libero. Neanche una nuvola. Levataccia inutile, allietata solo da un gatto di passaggio che mi fece compagnia in cambio di qualche carezza.
Il secondo giorno la medesima situazione. Levataccia inutile e qualche carezza al gatto.
Terzo giorno: il gatto era lì ad aspettarmi, ma il cielo era orribile e l'alba inutile da fotografare.
Quarto giorno: niente di buono, a parte l'amico gatto che ormai mi aspettava curioso ogni mattina.
La sera prima del quinto giorno ero indeciso se puntare la sveglia oppure no. Troppe le delusioni e, soprattutto, la mattina dopo tra le 9 e le 15 sarebbe passato il corriere a riprendersi l'attrezzatura per riportarla in Fujifilm. Dato che statisticamente un'alba su 10 vale la pena di essere fotografata decisi di puntare la sveglia sapendo che al massimo avrei fatto 4 coccole all'amico gatto e almeno una creatura felice ci sarebbe stata. Guidando la macchina nel buio e in assenza di traffico però la mattina del quinto giorno mi parve subito diversa dalle altre e quando cominciò a schiarirsi il cielo ne ebbi la conferma. L'ultimo giorno per scattare la foto era quello giusto. Prima di iniziare a scattare qualche carezza al gatto per ringraziarlo di avermi aspettato anche quel giorno e poi via ad ammirare il cielo colorarsi di arancione, giallo e rosso e intorno alle 6 di mattina lo scatto era al sicuro nella scheda SD. Il tempo di tornare a casa, fare colazione, riprendere i sensi, scaricare le foto e chiudere il pacco e la fotocamera era già in viaggio verso la sua casa ancora prima di sviluppare la foto desiderata, ma ormai sapevo che il file era lì nel mio computer e che il risultato di tanti sforzi era stato ripagato.



Vi racconto una foto #3 / Quando la TV inganna

Gianluca Laurentini - Fotografia di paesaggio e di viaggio
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Tags: Vi Racconto Una FotoCastello del VolterraioIsola d’ElbaFreedomRoberto Giacobbo

Il castello del Volterraio è uno dei primi luoghi a colpire l'immaginario di chi arriva all'isola d'Elba, specialmente di quelli abituati ad andare in montagna come me. Si erge alto e solitario ed è visibile dal traghetto già molto prima di entrare in porto a Portoferraio e voler salire lassù per godersi il panorama è un desiderio che si può definire naturale e che si impadronisce di molti ancor prima di mettere piede sull'isola.
La voglia di visitarlo per me era acuita da altri due fattori: il non essere riuscito ad andarci durante le mie prime due visite all'Isola d'Elba e il fatto di aver visto un servizio in televisione pochi giorni prima di tornare sull’isola. Proprio la TV però mi aveva tratto in inganno nel preparare quella visita, normalmente infatti sarei andato tranquillamente con le scarpe da ginnastica e la macchina fotografica al collo, invece mi presentai armato di bacchette da escursionismo e scarpe da trekking a causa della vera e propria drammatizzazione attuata da Roberto Giacobbo nel programma Freedom.
Nel servizio che avevo visto il conduttore partendo dal comodo parcheggio aveva iniziato la salita ansimando in modo sovrannaturale mentre il cameraman era intento a immortalargli da più o meno vicino le chiappe mentre passo dopo passo e gradino dopo gradino salivano verso il castello. Per far capire al suo pubblico quale incredibile sforzo fosse necessario per salire fino al castello Roberto Giacobbo si fermò a una piazzola per spiegare qualcosa e riprendere fiato mentre sembrava dovesse sputare un polmone da un momento all'altro, ma la piazzola nella realtà si trovava a non più dell'equivalente di un paio di piani di scale e arrivarci fu tutt'altro che faticoso per me. Insomma arrivai in cima nient’affatto affaticato, ma pronto e attrezzato per affrontare la più difficoltosa delle montagne dolomitiche, senza però doverlo fare visto che bastarono pochi minuti di salita. Avrei potuto portare anche mio figlio all'interno del marsupio - allora aveva poco più di 6 mesi - e avere comunque la possibilità di portare con me anche la fotocamera in mano, invece sembravo Messner pronto per scalare il K2.
Il vero problema che dovetti affrontare però fu di tipo fotografico, infatti la giornata non si rivelò amica dal punto di vista del clima umidissimo e della foschia, inoltre avere una buona inquadratura è quasi impossibile se ci si limita al sentiero tracciato. Per ottenere quel che volevo iniziai a fare un giro intorno al castello e mi accorsi che il castello non si trova in vetta, ma su un'anticima più ampia e comoda per costruire qualcosa rispetto alla vera e propria cima, che è invece troppo piccola per posizionarci sopra un castello.
Per raggiungere la cima vera e propria bisogna arrampicarsi un po’, ma poi si riesce a fotografare il castello da una posizione assolutamente privilegiata senza nemmeno dover utilizzare un drone. Tra le buone foto che riuscii a portare a casa c’è questa che mi piace molto, qui la luce del sole che filtra fra la foschia sembra assumere i toni tipici del tramonto all’orizzonte e il risultato mostra bene non solo la bellezza del luogo, ma anche l’atmosfera di pace che si respira da lassù.



Vi racconto una foto #2 / Il lago… defilato!

Gianluca Laurentini - Fotografia di paesaggio e di viaggio

Il 6 settembre 2022, durante una vacanza nel Parco Nazionale dei Monti Sibillini, ho deciso di fare un'escursione fino al lago di Pilato. Un vero e proprio simbolo di questo splendido parco nazionale. Non esiste appassionato di montagna che possa esimersi dall’andare a vederlo quando si trova in quelle zone perché si tratta veramente di un posto dal fascino ineguagliabile. È inoltre un lago di origine glaciale nonostante si trovi negli appennini e questo lo rende praticamente unico tra i laghi a sud delle Alpi.  La sua forma poi lo fa somigliare a un paio di occhiali rendendolo estremamente riconoscibile e fotogenico.

Deve il suo nome a una leggenda tanto intrigante quanto inverosimile: Ponzio Pilato sarebbe stato chiamato a Roma dall'imperatore Vespasiano che lo avrebbe condannato a morte per non aver impedito la crocifissione di Gesù Cristo, ma di questo non ci sono prove che lo accertino storicamente. A quel punto il suo corpo sarebbe stato posto su un carro trainato da due bufali che da Roma lo avrebbero portato, anche se non se ne capisce il motivo, fino ai Monti Sibillini. I bufali si sarebbero quindi gettati con il carro e il corpo di Pilato nel lago legando indissolubilmente il nome del prefetto romano a quello del lago e rendendo in questo modo il lago il posto perfetto per ambientarci storie di demoni e di spiriti maligni.
Se si lasciano da parte le leggende esiste anche un'altra motivazione che rende veramente unico il lago: la presenza di un minuscolo crostaceo che misura circa 1 centimetrodi lunghezza da adulto e che prende il nome di Chirocefalo del Marchesoni. Un animale endemico di questo lago, cioè vive solamente in queste acque. Non è possibile trovarlo in nessun altro luogo al mondo che non sia questo piccolo lago montano.

Quando sono arrivato al cospetto del lago, appena sotto l'imponente Pizzo del Diavolo, mi sono ritrovato peròdi fronte a un bacino completamente asciutto a causa della siccità e del prolungato caldo estivo. Insomma, per usare un gioco di parole, potremmo dire che il Lago di Pilato si era defilato.

Non è la prima volta che questo accade nella storia e non sarà di certo l'ultima, ma se si inserisce il prosciugamento del lago in un quadro globale ritengo che sia lecito considerarlo come un evento legato al cambiamento climatico dovuto all'azione dell'uomo. Infatti, anche se non è la prima volta che ciò accade, non bisogna sottovalutare il fatto che estati sempre più calde di anno in anno vengano registrate con una costanza allarmante e che se a questo calore intenso e prolungato si legano anche la mancanza di precipitazioni e nevicate poco abbondanti in inverno c'è poco da stare tranquilli. E il Chirocefalo del Marchesoni che fine farà? Per fortuna la natura ci ha dimostrato che questo crostaceo riesce a far schiudere una parte delle sue uova anche dopo un periodo di secca del lago. Si compie però un errore enorme se si pensa che allora sia tutto a posto così, che tanto la natura ha permesso a questa specie endemica di sopravvivere in condizioni straordinarie. Se queste condizioni climatiche in futuro si verificheranno con maggiore frequenza, per non dire tutti gli anni con una certa regolarità, non si può escludere che una popolazione fiaccata da anni e anni di condizioni al limite della sopravvivenza non possa finire per estinguersi. Chiunque di noi può sopravvivere un giorno senza mangiare, ma se questa condizione si ripete tutti i giorni le cose, ahimè, cambiano.

Spesso quando si parla di cambiamento climatico con le persone queste fanno fatica a valutarne gli effetti per un semplice motivo: non conoscono e non frequentano la montagna. La montagna infatti nonostante la sua imponenza è un posto fragile, dagli equilibri precari e per questo non smette di lanciarci segnali di allarme che l'uomo tende sistematicamente a ignorare preso da altre emergenze. Guerre, pandemie e crisi energetiche sono considerate importanti perché hanno ricadute immediate sulla vita di tutti i giorni, eppure se l'umanità si fermasse a riflettere su quel che ci costerà veramente il cambiamento climatico davanti a una bolletta raddoppiata farebbe spallucce e chiederebbe alla politica mondiale di concentrarsi sulla crisi climatica.

Ritengo che l'unico modo per insegnare ai bambini delle nuove generazioni a interpretare i segnali che il pianeta ci invia non sia fargli vedere documentari in TV o fargli fare un giorno di sciopero da scuola, ma di portarli con una certa regolarità e con gente esperta a vedere i segnali che la montagna ci invia per fargli toccare con mano quel che stiamo distruggendo.

Se solo venisse insegnata come si deve l'educazione ambientale nelle scuole forse ne potrebbe trarre giovamento l'intera umanità e anche le scelte di chi ci governa sarebbero costrette a tenerne conto.




Vi racconto una foto #1 / La quiete prima della tempesta

Gianluca Laurentini - Fotografia di paesaggio e di viaggio

Lunedì 22 agosto del 2016 avevamo programmato un’escursione in montagna. La mia compagna si era presa un giorno di ferie proprio per non trovare troppo trambusto sui sentieri visto che d’estate le montagne del centro Italia sono prese d’assalto dagli appassionati.
La decisione fino alla sera prima era quella di andare sui Monti della Laga per poi andare a pranzo ad Amatrice. Avevamo individuato una passeggiata non troppo difficoltosa che ci avrebbe permesso di andare in un ristorante e mangiare un bel piatto di amatriciana o di gricia. Però nei giorni precedenti le previsioni meteo avevano iniziato a indicare possibile pioggia in quella zona, così all’ultimo decidemmo di cambiare meta per non correre rischi e ci dirigemmo sulla vetta del Monte Viglio, nel Parco Naturale Regionale dei Monti Simbruini, portandoci dei più modesti panini per pranzo. Avevamo visto il Monte Viglio da lontano tante volte, ma non eravamo mai saliti fino alla vetta e quello sembrava essere il giorno giusto per farlo.
Intorno all’ora di pranzo eravamo in cima e avevamo sufficiente visibilità per vedere le montagne vicine e lontane. Quelle nuvole che si vedono in lontananza in questa foto sono quelle che non avevano mai abbandonato le zone dei Monti della Laga.
Arrivati in cima capimmo di aver fatto proprio bene a orientarci su un’altra escursione. Il tempo era stato fantastico, la passeggiata strepitosa, la visibilità era straordinaria e le nuvole erano tutte attorno a noi, ma mai completamente sopra a noi al punto da farci temere la pioggia. E poi la settimana successiva avremmo potuto recuperare l’escursione che avevamo previsto di fare. Però non andò così, la notte del 24 agosto del 2016 sentimmo una forte scossa di terremoto. Dopo poco tempo un’altra. La nostra casa a Roma venne scossa in modo tale da sembrare di essere solo in un brutto incubo e feci fatica a riprendere il sonno in seguito, immaginavo che fosse successo qualcosa di molto grave. Un terremoto così forte e lungo doveva per forza arrivare da qualche parte e la mente tornò ai terremoti del 1997 e a quello dell’Aquila del 2009, che però io non sentii perché in quel periodo abitavo a Milano. La mattina al TG scoprimmo che alle 3:36 un sisma aveva letteralmente distrutto quelle zone nelle quali saremmo dovuti andare. In pochi istanti una serie di paesi, tra i quali Amatrice e Arquata non c’erano più e con loro circa 300 persone che in quella notte hanno perso la vita. Ora, a 6 anni di distanza, mi sento finalmente di condividere con voi questo racconto e una delle fotografie scattate quel giorno, che avevo tenuto nell’archivio fino ad oggi.



Gianluca Laurentini Photography
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